Mio caro Adolfino,
non so se un giorno, da grande, tu vorrai leggere queste pagine. Io però lo stesso le scrivo, perché sento un bisogno urgente, irrefrenabile, di raccontarti tutta la gioia e l’amore che la tua venuta ci ha dato.
Ti ho sempre detto che papà e mamma erano molto tristi prima che tu arrivassi, forse questo non é esattamente tutto vero.
Noi ci volevamo (ci vogliamo!!!) tanto, tanto bene e vivevamo, anche se non lo sapevamo, nella tua attesa. Era peró un’attesa serena e fiduciosa perché sapevamo che saresti arrivato tu, proprio tu, il nostro Adolfino, con i suoi enormi occhi neri e la sua intelligenza saettante.
I primi anni di matrimonio eravamo inebriati di felicità e tutti tesi a raggiungere altre mete: la laurea di papà, il servizio militare e poi via via il suo successo professionale. Poi un giorno ci furono tra noi dei discorsi, delle parole, delle confessioni: “Vorresti un bambino? Ti piacerebbe avere un figlio”? Ed ecco la decisione. Sono passati nove mesi da quella decisione, proprio nove mesi esatti. II ginecologo avrebbe sentenziato: parto eutocico.
Ed ecco che il telefono di casa Salabé suonò, in una mattina come tante altre.
Mi sono precipitata a rispondere di corsa, perché ti aspettavo, perché sapevo che eri vicino. Ed ecco una voce femminile: “Signora é nato il suo bambino, un bel maschietto di quattro chili e mezzo. Può venire subito a vederlo?!?”.
Quello che ho provato in quell’istante é indescrivibile. Una ridda di pensieri tutti accavallati ed incalzanti.
Prima devo correre ad annunciarlo a Mario.
No! Vado a comprare il corredino.
No! Devo avvisare mamma, che in questi casi riesce ad organizzare con più chiarezza le cose. No! Corro a vederlo. Non ricordo bene cosa ho fatto per prima. So soltanto che nonna Carmela, papà ed io eravamo in clinica appena mezzora dopo.
Lì c’eri tu che dormivi pacifico e sereno.
La suora, con te in braccio, si é avvicinata e mi ti ha porto dicendo: “Signora questo é suo figlio”. E’ stato allora che sono scoppiata a piangere a dirotto, e ti ho svegliato, e la prima cosa che hai fatto è stata quella di sorridermi. Ma, nonostante il tuo sorriso, i miei singhiozzi erano struggenti e incalzanti, credevo che il petto mi scoppiasse dalla gioia.
Papà era pietrificato contro il muro, anche lui con gli occhi pieni di lacrime e il cuore gonfio di amore. Sarebbe finita in una tragedia greca, se nonna Carmela non fosse intervenuta con il suo solito humor e non avesse spezzato questa catena di singhiozzi con una frase spiritosa:
“Pari ‘nu pitaciu” (sembra un rondinotto).
Infatti questa era la prima sensazione nel vederti, cioè quella di un uccellino, anzi di un rondinotto implume, con due enormi occhi sgranati e pieni di punti interrogativi. Per fortuna nonna Carmela aveva salvato la situazione perché, alla sua battuta, tutti siamo scoppiati a ridere e tu hai potuto finalmente riprendere il tuo pisolino. I tuoi pisolini, poi lo saprò! E diventeranno proverbiali, perché sarai un bimbo impastato di sonno e buonissimo.