Tu eri attaccato alla macchina che respirava per te.

Ti vedevamo sdraiato su di un letto da cinque mesi, avevi conservato il torace possente da nuotatore, la carnagione tesa e luminosa da ventenne.

II tuo viso da uomo giovane mi faceva pensare ai progetti che facevi per il futuro.

La gara a cospargerti di crema era una scusa per poter conoscere ed accarezzare tutto il tuo corpo sofferente.

Cercavo tra i numeri del monitor qualche segno che tu, pur attaccato a quel tubo che respirava per te, gradivi le carezze ed i baci che papà ed io ti davamo.

Ma, quando il segnale arrivava, restavamo pietrificati, terrorizzati dal timore che tu sentissi dolore.

Arrivò l’otto di ottobre. II dottor Cabanillas ci comunicò che neppure lui avrebbe più potuto fare nulla. Alla domanda, se volevamo continuare a curarti, o ci arrendevamo accettando di sospendere tutto, papà chiese due ore di tempo per riflettere.

Alle tre del pomeriggio il dottor Cabanillas ci aspettava nel suo studio.

“Soffre?”. Chiedemmo. La risposta fu negativa.

“Che differenza passa, allora, tra curarlo e non curarlo?”.

Decidemmo di andare avanti, dopo un lungo abbraccio carico di… tutto.

I monitors parlavano per te. Se ti carezzavamo, vedevamo il cuore battere piú forte. Se ti parlavamo, i tuoi occhi si socchiudevano. Se ti piegavamo le gambe, la pressione saliva.

Chissà se sognavi?

Chissà se ti stavi lentamente distaccando da noi per trasformarti in un angelo?